Crescere è umanizzarsi. Chi aiuta i bambini e le famiglie a farlo?

Quali sono i servizi sociali che supportano le famiglie nel loro percorso educativo e i bambini nella loro crescita? Quali sono le agenzie sociali e gli istituti che si preoccupano di socializzare i bambini e di aiutarli nel percorso di apprendimento e di maturazione? Certamente i nidi e le scuole sono i primi a venire in mente e quelli a cui accede il maggior numero di persone, visto che più del 20% dei bambini tra 0 e 3 anni frequenta il nido e la quasi totalità dei bambini tra 3 e 6 anni è iscritta alla scuola dell’infanzia. Il nido e la scuola dell’infanzia entrano dunque nella vita di quasi tutte le famiglie e svolgono un ruolo di guida, aiuto, accompagnamento, nei confronti dei piccoli e grandi bisogni educativi che esse vivono. Sicuramente chi frequenta il nido e la scuola riesce a fruire di attenzioni professionali che danno al bambino e alla sua famiglia la possibilità di imparare, crescere, scoprire il mondo, stare bene con gli altri ed esprimere il proprio potenziale. Tuttavia tra l’esperienza scolastica ed educativa strutturata che viene vissuta nella scuola e le domande educative delle famiglie e dei bambini si crea spesso un divario di aspettative e di corrispondenze, che in alcuni casi può trasformarsi in una vera e propria frattura istituzionale, che non permette ai cittadini di fruire delle potenzialità del servizio e al servizio di rivolgersi a tutti rispondendo alle domande di apprendimento, socializzazione e crescita di cui sono legittimamente portatori. Crescere infatti è azione dal doppio valore semantico, da una parte si cresce fisicamente, dall’altra aumentando la nostra capacità di fare, sapere, costruire, stare in relazione con gli altri, e cresciamo perché diventiamo più umani, più grandi nell’umanità di cui siamo dotati fin dalla nascita. Se invece che della crescita umanamente intesa, il nido e la scuola si preoccupano solo di accogliere i bambini e fargli svolgere le attività di un curricolo precario e ristretto, animato da risorse limitate, in contesti poco stimolanti e per nulla attenti alle particolarità di ciascuna famiglia e ciascun individuo, allora corriamo il rischio di porre una distanza istituzionale tra i bisogni educativi dei bambini e delle famiglie e i primi servizi che dovrebbero soddisfarli. Le famiglie e i bambini hanno un insieme di bisogni educativi più ampio dell’insieme di risposte educative che danno il nido e la scuola, la questione è essenzialmente questa. Dunque le famiglie cercano le risposte che non vengono date dalla scuola e dal nido altrove, ma questa ricerca è possibile solo se si sono in grado di orientarsi in maniera competente tra le offerte educative e soprattutto se possono accedervi economicamente. Lo scarto tra bisogni educativi e possibilità di accedere alle soluzioni giuste spesso è una vera e propria distanza istituzionale, costituita principalmente da due diversi aspetti, il primo riguarda la funzione stessa del nido e della scuola mentre il secondo riguarda più in generale la capacità che hanno le persone di partecipare ed esprimersi in contesti sociali complessi in cui esiste uno squilibrio di competenze accentuato tra professionisti e fruitori di un servizio.

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Innanzitutto, infatti, il servizio educativo si connota per una funzione che è determinata molto precisamente e in maniera molto tradizionale. I bambini e le bambine che lo frequentano ricevono cure educative standardizzate in un contesto professionale formalizzato e in luoghi che ne restringono l’accesso a esperienze socialmente significative. Ciò vuol dire che troppo spesso il nido e la scuola non riescono a trascendere la propria struttura organizzativa e il proprio carattere escludente e si ritrovano a separare i bambini dal contesto sociale di riferimento, con il risultato che spesso nei primi anni di vita la maggior parte del tempo che i bambini passano presso il servizio educativo o scolastico è un tempo privato di esperienze necessarie alla crescita, esperienze che una volta erano a carico della famiglia e che la scuola non aveva bisogno di includere nella propria visione pedagogica dello sviluppo infantile. L’esempio tipico di una esperienza socialmente importante e che oggi non viene più vissuta dai bambini in quasi nessuna occasione nei primi anni di vita (e se viene vissuta a scuola lo è solo sporadicamente o eccezionalmente) è dato dal bambino che si recava al mercato con un familiare e scopriva ciò che viene venduto da ciascun commerciante in un determinato periodo dell’anno, imparando a decifrare i comportamenti commerciali da quelli di cortesia e di vicinanza (“ecco le pesche più buone del mondo!” non è “come va? tutto bene? passata l’influenza?”), imparando ad attraversare la strada, imparando a osservare gli altri, imparando a sentirsi a suo agio nello spazio pubblico, ecc.

Anni fa la famiglia era l’agenzia di socializzazione che si occupava di mediare tra il bambino e il contesto più ampio, deweyanamente possiamo dire che prima dell’industrializzazione la scuola dei bambini non esisteva perché essi erano socializzati ed educati direttamente per mezzo di esperienze che avevano una potente carica di apprendimento, ed era la famiglia e il vicinato ad operare questo processo (Dewey, 1967). Chiaramente l’industrializzazione e l’urbanizzazione hanno creato una necessità sociale di cura dell’infanzia che non aveva avuto precedenti nella storia umana. D’improvviso i bambini erano diventati un peso per i genitori impegnati in lavori pesanti e pericolosi, che li obbligavano spesso a lasciare il proprio domicilio per tutta la giornata senza poter contare su reti di assistenza e di solidarietà, né familiari né di vicinato. In particolar modo con la grande trasformazione della famiglia e dei rapporti tra uomo e donna e genitori e figli degli anni ’60 e ’70 del secolo appena passato, si afferma il modello culturale e pedagogico di servizi che accolgono e assistono i bambini in luoghi chiusi e separati dal normale flusso degli scambi della vita quotidiana, preparando esperienze di apprendimento avulse dal panorama delle esperienze sociali normali e organizzando i tempi del servizio in modo che i bambini abbiano accesso a momenti di attività a carattere cognitivo, relazionale, espressivo. Evidentemente la scuola e il nido hanno un valore educativo immenso e imprescindibile quando riescono bene in questa intenzione di organizzare il tempo e gli spazi per permettere ai bambini di accedere a momenti di apprendimento culturale, espressivo, logico, relazionale, affettivo. Il loro senso ultimo e la loro giustificazione è dovuta proprio alla loro capacità di conoscere la biologia e i nessi sociali dello sviluppo infantile per favorire la crescita di tutti i bambini. Però molto spesso, a osservatori attenti e critici, risulta palese la grande difficoltà in cui ricadono il nido e la scuola che sono preoccupati esclusivamente dall’organizzazione dei propri spazi e tempi, senza rivolgere lo sguardo al di fuori, a ciò che è educativo e istruttivo pur trovandosi fuori dalle mura della propria struttura. Possiamo affermare che un bambino può, utilmente per la sua crescita integrale, passare cinque giorni alla settimana in un nido o in una scuola senza mai svolgere attività come: andare a fare la spesa, andare in biblioteca, fare una passeggiata, andare a riparare una bicicletta o un altro strumento che si è rotto, andare al bar con un adulto che prende un caffè e parla con qualcuno, andare in piazza e giocare, andare al museo, andare al fiume, osservare un artigiano che lavora? Sia chiaro che andare al fiume una volta all’anno o andare in piazza a salutare il sindaco una volta in tre anni non si devono considerare esperienze educative (nel senso di Dewey, per cui una esperienza è educativa quando getta le basi di un comportamento più competente ed efficace, che amplia l’orizzonte delle facoltà del bambino e lo mette in contatto con maggiori possibilità di relazione con l’ambiente sociale e fisico).

Maria Montessori negli anni ’50 parlava del ruolo educativo delle madri nei primi anni di vita dei propri figli, e metteva in evidenza la funzione di filtro che esse attuavano quando li portavano con sé durante le incombenze quotidiane. Il bambino in quel caso non era messo a contatto diretto con la società, ma, attraverso la madre, vi entrava in contatto mediato. Socializzarsi vuol dire apprendere e assorbire segni, codici, linguaggi, norme, valori, simboli, storie. Questo percorso di socializzazione, normativa, culturale, etica, espressiva, non può essere demandato esclusivamente a una agenzia formativa o educativa, pena una irrimediabile precarietà e parzialità dello sviluppo e della crescita. Quando Montessori parlava di madri riconosceva che durante la prima fase della crescita esse incarnano una duplice figura di nutrice: fisica e psichica. Fisicamente è nutrice perché allatta il bambino, e psichicamente lo è perché portandolo con sé lo avvicina al mondo, e a tutte le sue complessità che il bambino deve recepire. Per la Montessori le complessità da mediare psichicamente erano principalmente il linguaggio, gli oggetti e i modi culturali. In definitiva la Montessori riconosce che l’adulto deve avvicinare il bambino alla realtà sociale, al linguaggio, ai manufatti, alle relazioni, mentre la scuola ha un ruolo maggiormente istruttivo, si concentra di più sugli apprendimenti formali, organizzando spazi e tempi per favorire l’acquisizione di competenze utili al percorso curricolare di studio e formazione (Montessori, 1968). Vista così la relazione tra scuola e società, tra scuola e famiglia, ci accorgiamo che non è possibile credere ingenuamente all’autosufficienza di un progetto educativo che vede nido e scuola isolati dal contesto sociale di provenienza del bambino, senza una relazione di comunicazione e scambio che definisca l’intervento educativo e la sua possibilità in base alle esperienze di provenienza di ciascuno. Ovvero non possiamo immaginare un servizio educativo che rinunci a preoccuparsi della socializzazione del bambino, e superare la visione popolare del servizio educativo che socializza i bambini che lo frequentano. Socializzare non significa mangiare al nido seduti o partecipare insieme agli altri ad una attività artistica, socializzare significa umanizzarsi (Freire, 2011), significa apprendere a vivere tra gli uomini, esprimersi e capire come si fa a vivere, comunicare e decodificare segnali di vita, giocare e interpretare ruoli, aiutare e farsi aiutare, raccontare storie e raggiungere traguardi comuni. Pretendere che la scuola riesca ad aiutare le persone a fare tutto ciò senza sporcarsi le mani con la realtà, con i quartieri, con il mondo, è pura ideologia. Parlare di collaborazione con le famiglie in una situazione in cui le famiglie non sono in grado di avvicinare i bambini al mondo, e anzi cadono in comportamenti educativi anestetizzanti e passivizzanti (televisione, videogame, internet, intrattenimento digitale di ogni tipo), risulta contraddittorio e sviante. Credere che sia sufficiente fare scuola per socializzare e umanizzare, e per giunta fare una scuola che non si preoccupa delle esperienze familiari e sociali dei bambini che gli sono affidati, è cedere alle illusioni. Giustamente Maria Montessori (1910) sosteneva una tesi di sussidiarietà funzionale tra scuola e famiglia: il bambino viene accolto dalla madre e dal padre alla nascita perché possano provvedergli quel nutrimento fisico e psichico adatto alle sue capacità ancora in alba, in attesa che egli venga divezzato, ovvero messo in condizione di prendere nutrimento (tanto fisico che psichico) direttamente dall’ambiente. Solo a quel punto si può intervenire con un ambiente scolastico ed educativo che inserisce il bambino in gruppi di apprendimento, in ambienti strutturati ed escludenti, che concentrano l’attenzione dell’adulto e del bambino su alcuni apprendimenti, alcune materie, alcuni oggetti didattici. Tuttavia il passaggio dalla famiglia e dalla società alla scuola non è privo di complicazioni e difficoltà, è anzi spesso impervio e ingombro di ostacoli. Chi si deve fare carico della soluzione di queste difficoltà? Di certo non può essere la famiglia, pena il rafforzamento della disuguaglianza economica, cognitiva, culturale e di status. Non si può pretendere neanche che siano i servizi sociali delle amministrazioni comunali a prendere in carico questo passaggio, visto che il loro obiettivo sono sì le situazioni di disagio e difficoltà, ma non di natura educativa. Rimangono dunque due possibili attori a occuparsi della questione, da un lato la scuola e il nido e dall’altro la società (intesa come società civile, associazionismo, amministrazioni pubbliche). Dunque la società (le associazioni, le fondazioni, il privato sociale, la politica) e la scuola (il nido, il servizio educativo, la scuola dell’infanzia) devono  creare relazioni proficue tra di loro affinché le famiglie e i bambini riescano a trarre dal contesto sociale il nutrimento necessario alla socializzazione e dalla scuola invece il nutrimento necessario agli apprendimenti. La scuola deve oltrepassare la sua univoca preoccupazione verso i propri spazi e i propri tempi, includendo le famiglie, i loro percorsi, le associazioni, gli esercizi commerciali, le comunità di scopo, i servizi sociali. La società deve invece farsi attraversare dagli educatori, dalle maestre, dalle scuole, deve aprirsi alla possibilità di formare, istruire, socializzare, riconoscendo il proprio obbligo educativo verso i bambini e verso le famiglie. Educare è azione complessa e che richiede un impegno articolato da parte di molte differenti agenzie, educare vuol dire socializzare e insegnare, educarsi vuol dire apprendere e comportarsi in modo che gli altri ci accolgano e capiscano quando ci esprimiamo ed entriamo in relazione. Ecco perché tanta complessità richiede una concomitanza di intenti, una concordanza di obiettivi, e un coordinamento di azioni, in modo che società e scuola cooperino e permettano alle famiglie di accedere a servizi che rispondono alla vera domanda di educazione, che è sempre una domanda articolata che richiede una risposta non banale, seria, irriducibile a slogan e risposte prestabilite, che sia in grado di intercettare i bisogni di ciascuno. Come possiamo dare risposte fruste e convenzionali a una domanda educativa che chiede di favorire nei bambini (e nella loro famiglia) una crescita piena, umana? Crescere non è solo diventare più alti, è invece diventare più umani, più socializzati, più espressivi, più giusti, più aperti al mondo, più creativi. Se la domanda che proviene dalle famiglie e dai bambini è una domanda di umanizzazione, la risposta non può ridursi alla creazione di una scuola o di un nido che dà istruzioni e crea ambienti formativi impermeabili e che non sono in comunicazione con il contesto sociale più ampio. Alcuni potrebbero sostenere che il compito della scuola sia proprio quello di educare e istruire entro i propri limiti (fisici e culturali) disinteressandosi del compito educativo più ampio, che include anche la crescita intesa come socializzazione e umanizzazione, ma questo significherebbe affermare la necessità di un secondo ente che svolga questo compito educativo. Ma qui saremmo dinnanzi ad una contraddizione, visto che l’ente che si occupa dell’educazione infantile è innanzitutto la scuola (e il nido nei primi tre anni di vita). Chiaramente esistono molti altri servizi educativi (centri di custodia, nidi in famiglia, ludoteche, spazi mamma-bambino, ecc.) ma creare un ente che sia preposto alla socializzazione e alla crescita intesa in un senso più allargato sarebbe impensabile, e inoltre moltiplicare gli enti è azione costosa e da intraprendere solo ove necessario (come ricorda Occam).

In secondo luogo dobbiamo tenere sempre presente che tra le famiglie e i professionisti della cura, dell’aiuto e dell’educazione c’è una profonda asimmetria culturale e di pratiche. Nessuno nega che la famiglia sia competente e che abbia gli strumenti per intervenire a favore della socializzazione, della crescita e dell’umanizzazione dei bambini, ma non possiamo neanche negare che esistono famiglie che questa competenza non la posseggono, famiglie povere, poco acculturate, con scarsa attenzione educativa, che vivono difficoltà psicologiche, sociali e relazionali che non permettono loro di riuscire nell’arduo compito di educare. La condizione di povertà economica, che riguarda in Italia una famiglia su sei, aumenta sensibilmente nelle famiglie con figli minori al Sud e nelle aree metropolitane del nord (nel Nord-Ovest il tasso di povertà assoluta è il più alto d’Italia secondo l’Istat, mentre quello di povertà relativa è più alto al Sud). Tra le diverse dimensioni della povertà, quella educativa è particolarmente preoccupante perché lascia segni spesso irreversibili nello sviluppo e compromette il futuro di singoli individui così come di intere comunità. L’esperienza e le ricerche dimostrano che i primi anni di vita sono decisivi nel definire gli itinerari di vita e la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità, e che le opportunità di crescita cognitiva, emotiva e sociale, in questi anni sono fortemente dipendenti da quanto le famiglie, i servizi educativi e le comunità sono capaci di offrire a tutti i bambini a partire dalla nascita.Esistono grandi lacune nelle competenze genitoriali e se ad esse non corrisponde un forte bilanciamento nell’offerta, accessibilità e qualità, dei servizi educativi per la prima infanzia, in particolare in merito ai nidi, e particolarmente in alcune aree metropolitane e al Sud, lasciamo i bambini nell’impossibilità di socializzarsi, umanizzarsi, esprimersi. Le diseguaglianze e le carenze educative riguardano molto spesso le situazioni di maggiore vulnerabilità delle famiglie e dei minori, incluse le condizioni di disabilità e di recente migrazione. Filangeri (1922), un grande riformatore del nostro illuminismo napoletano, affermava che è compito della società evitare che il potenziale umano venga sprecato per colpa di cattive condizioni ambientali visto che “la disuguaglianza tra gli uomini dipende meno dalla loro intrinseca diversità dell’attitudine delle loro facoltà di sentire, pensare, volere, che dalle cause che si combinano per svilupparla”, e per noi oggi il più grande lascito educativo dell’illuminismo e del suo progressismo è proprio l’attenzione all’eliminazione delle cause sociali della disuguaglianza attraverso l’educazione. Per questo sappiamo che è la società nel suo complesso, e lo Stato in primis, a doversi accollare l’onere dell’educare e del crescere i bambini, soprattutto quando e dove le famiglie non sono in grado di farlo. La famiglia lasciata alle proprie scarse e limitate capacità si riproduce e priva i propri bambini di esprimere tutte le proprie capacità. E la società, le amministrazioni pubbliche, la scuola, devono produrre risposte credibili per eliminare le condizioni di svantaggio. Purtroppo però troppo spesso l’intervento educativo in condizioni di disagio avviene solo nei casi più disperati, eclatanti e violenti, mentre l’intervento educativo a sostegno di una crescita integrale e del tutto umana dovrebbe essere qualcosa di diffuso e usuale, una pratica che metta in relazione la scuola e la famiglia, superando le distanze e le asimmetrie culturali, ponendosi nell’ottica della sussidiarietà e costruendo ponti che facciano attraversare i momenti più importanti della crescita a piedi asciutti, senza rimanere impantanati o addirittura affogati nelle rapide della vita.

Un esempio concreto di come si possa realizzare una cooperazione tra associazioni, privato sociale, scuole, famiglie, per sviluppare un progetto di servizio comunitario educativo è la creazione di uno spazio dedicato alle famiglie con bambini da 0 a 5 anni dove portare i propri bimbi a giocare, nel quale confrontarsi con dei professionisti della crescita, conoscere altri genitori  accolti in modo informale da un educatore, uno psicologo e un pediatra, a disposizione per supportare nel loro ruolo i genitori. Il servizio (che Orsa ha avviato ad Ossona) vuole rappresentare un polo di riferimento per le famiglie e i bambini del territorio, per permettere a tutti di vivere con gioia l’esperienza di crescita che coinvolge figli, genitori, comunità, cercando sostegno ma anche scoprendo l’importanza del gioco simbolico e di costruzione nei primi anni di vita, sperimentando momenti di separazione controllata dai propri figli in un ambiente preparato per favorire il gioco e la comunicazione, acquisendo informazioni e notizie sullo sviluppo infantile e riflettendo sulle proprie pratiche genitoriali grazie agli spunti elaborati da un punto di vista professionale.

Un’altro esempio è dato dal progetto “Un villaggio per crescere” (che vede Orsa impegnata in diverse regioni italiane, dal Piemonte alla Sicilia). Il progetto si colloca nella prospettiva dell’ecologia sociale e si propone di garantire un’offerta educativa di qualità rivolta a tutte le  famiglie con bambini di età compresa tra 0 e 6 anni, con particolare attenzione alle famiglie in situazione di povertà e disagio. I destinatari del progetto sono residenti in otto aree territoriali e comunità urbane, distribuite in 6 differenti regioni, caratterizzate da alta prevalenza di povertà educativa, carenza o scarsa fruibilità di servizi per l’infanzia, o difficoltà d’accesso ai servizi. Il progetto prevede la creazione di presidî di facile accessibilità, adeguatamente arredati e dotati dei materiali ludici e didattici necessari, in cui proporre un’offerta educativa su base quotidiana, articolata per due/tre fasce di età, e centrata su buone pratiche di dimostrata efficacia per lo sviluppo cognitivo e socio-relazionale del bambino, oltre che per il rafforzamento delle competenze genitoriali. Tra queste buone pratiche rientrano: la lettura condivisa, la narrazione, l’esperienza musicale, il gioco simbolico e quello costruttivo, l’espressione artistica, l’utilizzo educativo di strumentazione tecnologica, l’esplorazione e la valorizzazione del  territorio. Le pratiche e i metodi educativi adottati dai presidî sono stati delineati da un comitato scientifico multidisciplinare di alto profilo e sono erogati da professionisti dell’educazione, coadiuvati da una squadra di volontari appositamente formati. L’offerta educativa si  caratterizza inoltre per il coinvolgimento attivo dei genitori e delle famiglie destinatarie del progetto. Oltre all’offerta educativa a favore dei bambini della prima e seconda infanzia in situazione di rischio, disagio, povertà, si erogano anche momenti informativi e formativi per i genitori sui temi dello sviluppo infantile e l’educazione precoce delle competenze; poi si attiva, all’interno del presidio, uno sportello sociale che promuove e facilita l’utilizzo, da parte delle famiglie, di tutte le risorse educative e assistenziali presenti sul territorio e permette loro la fruizione dei benefit previsti da leggi nazionali, regionali e comunali. Una particolare attenzione viene rivolta ai bambini con disabilità o con limitate competenze linguistiche nell’offerta educativa, grazie all’utilizzo di strumenti e metodi a dimostrata valenza inclusiva quali silent books, in-books, libri in lingua, video con linguaggio LIS.

Il progetto, cosciente del fatto che uno dei problemi più diffusi e predittivi di insuccesso dell’azione a favore delle famiglie in situazione di disagio è la difficoltà a raggiungerle e farle partecipare nei programmi di aiuto, adotta strategie di dimostrata efficacia nel contattare e coinvolgere tutte le famiglie destinatarie dell’offerta del presidio, tra queste particolare rilevanza hanno le visite domiciliari (home visiting), il peer-to-peer, la mediazione culturale, e il coinvolgimento di tutte le agenzie presenti sul territorio e di cui i presidî si propongono come momenti di collegamento e progressiva integrazione: quelle sociosanitarie (aziende sanitarie locali e servizi di prossimità quali punti nascita, pediatri di famiglia e centri vaccinali) in quanto garanti di universalità d’accesso e continuità dei contatti, oltre che di opportunità per identificare bisogni di sostegno e cura; quelle socio-educative, sindacali, e religiose; Oltre al coinvolgimento delle agenzie sociali si struttura una politica di comunicazione sociale e pervasiva che si avvale dell’utilizzo dei social media e del coinvolgimento degli esercizi commerciali di vicinato. In particolare modo le visite domiciliari (home visiting) costituiscono un aspetto qualificante del progetto e una buona pratica che consente di raggiungere tutte le famiglie secondo modalità sperimentate con successo in altri progetti a favore della diffusione di una forte cultura dell’infanzia, in cui si sono raggiunte le famiglie presso il loro domicilio per la consegna di libri e altri materiali educativi presentati da professionisti della cultura e dell’educazione, evitando così il generarsi di qualsiasi stigma verso il ricevente e di pregiudizi o filtri affettivi e sociali verso gli operatori, superando ostacoli e remore culturali, e nel contempo proponendosi come canale per individuare le situazioni di maggiore vulnerabilità e rischio, per poi procedere ad attivare percorsi individualizzati di sostegno e aiuto.

Dewey, J. (1967). Scuola e società, Firenze: La Nuova Italia Editrice

Montessori, M. (1910). Antropologia Pedagogica, Milano: Vallardi

Montessori, M. (1968). La formazione dell’uomo, Milano: Garzanti

Freire, P. (2011). La pedagogia degli oppressi. Torino: Gruppo Abele

Filangeri, G. (2004). La Scienza della Legislazione, Venezia: Centro di studi sull’illuminismo europeo G. Stiffoni