Educare è un’azione naturale che avviene ovunque ci siano dei soggetti in uno stadio di sviluppo plastico, in grado di dare forma alle proprie strutture cognitive, comportamentali, relazionali, caratteriali, e altri soggetti che esercitano una influenza abbastanza forte da indurre e indirizzare questa formazione.
Se si ricorre ai classici troviamo alcune definizioni di educazione che ci aiutano a capire cosa significhi educare, e anche come esistano alcuni modelli a cui fare riferimento quando si cerca di definire il rapporto educativo. Un modello celebre, che ritroviamo sia nel Socrate dei dialoghi platonici che in Rousseau e in Fenelon, o, per venire più vicini a noi, in Don Milani, vede nell’educatore un precettore e nell’educando qualcuno che è condotto per mano, in un rapporto di estrema vicinanza e direttività, a prendere coscienza di qualcosa di importante per lui o ad apprendere ciò che è necessario per potersi considerare un essere umano del tutto riuscito. In questo modello il rapporto tra il precettore e gli alunni è di tipo esclusivo, quasi unico, e non tollera intromissioni da parte di altri, da parte della società, da parte della famiglia, perché queste intromissioni possono sviare, distrarre, allontanare l’educando dalla via che gli indica il precettore. Queste influenze esterne sono temute e considerate perniciose soprattutto perché il più delle volte questo modello educativo richiede una ardua presa di coscienza e uno strenuo impegno da parte del bambino e del giovane, necessari per poter raggiungere il fine del processo educativo, che in questo caso corrisponde nientemeno che all’assunzione di una forma umana per eccellenza. Il modello in questione, quello del precettore, potrebbe anche essere descritto come modello umanista, nel senso che i suo fine è ottenere nell’educando la forma umana per eccellenza, le sue preoccupazioni riguardano sempre la costruzione del carattere buono, delle competenze utili ad un essere umano in quanto tale, in quanto membro della specie utile ai suoi prossimi, ma anche come essere umano che sa riconoscere la verità e il bene nei contesti in cui si trova a vivere, e che è in grado di perseguirli anche a costo di sacrifici. Nell’antichità classica tanto quanto nell’Ancien Regime le famiglie altolocate usavano affidare solitamente i propri figli a dei precettori, sicuri che un rapporto di estrema vicinanza tra educando e educatore avrebbe giovato tanto allo sviluppo morale, quanto a quello fisico e culturale del bambino, e ciò era dovuto principalmente al fatto che anche l’educatore apparteneva alla stessa classe sociale dei genitori e condivideva visioni del mondo, ideologie, conoscenze, saperi. L’educatore era persona con la stessa provenienza e la stessa idea di umano, e, considerato anche in grado di trattare con i bambini, diveniva persona di fiducia a cui affidare la propria prole per riceverla indietro, dopo anni, ben formata. I precettori potevano essere più d’uno, anticipando in nuce la specializzazione educativa: un precettore per la ginnastica, uno per le lettere, uno per la matematica, e uno per la religione, ad esempio. Ma ciò non contraddiceva la natura esclusiva del rapporto tra educatore e educando, che favorire una continua esposizione del giovane all’adulto che doveva considerare come un perfetto modello di essere umano. Dal punto di vista della relazione sociale il precettore sollevava i genitori e i familiari più prossimi da quasi tutti obblighi imposti loro dalla natura, ovvero quelli affettivi, educativi, di cura, e questo aspetto faceva sì che la classe dominante, in un certo senso condividesse e socializzasse la funzione educativa. Al contrario Don Milani con il suo esperimento cristiano radicale inverte questa tendenza del modello del precettore a rispondere alle esigenze educative delle elites, e anzi porta alle masse diseredate il sapere e la formazione che abitualmente la borghesia riservava ai propri figli. Tuttavia la precarietà della sua vita e l’isolamento culturale e fisico delle sue pratiche hanno decretato una pressoché totale irrilevanza sociale del suo lavoro, e ad oggi quando si pensa al modello del precettore risulta abbastanza evidente che questo tipo di modello è poco sostenibile, e che può avere piuttosto un valore ideale o sperimentale, ma non uno sistemico e di ampia portata. Inoltre, e questo vale ancora di più nel momento attuale, ci sembra che l’ideale umano di perfezione, di forma umana per eccellenza, sia un concetto considerato oggi molto discutibile e per nulla ben accetto in una società che ha ormai scardinato ogni ordine con le rispettive forme di eccellenza umana, quella classica (la nobiltà d’animo, la coerenza e la forza interiori come valore), quella cristiana (tendere all’ultramondano e operare la carità come valore) e quella moderna (ricercare la conoscenza e operare il progresso sociale come valore). Pensare che nel postmoderno sia semplice recuperare visioni del bene e della verità che una volta erano tradizionali e pensare l’educazione come formazione del carattere ideale dell’uomo che incarna quei valori è oggi una delle posizioni più rivoluzionarie e inattuali che si possano assumere.
Un secondo modello è quello scolastico, che si basa sull’idea che un maestro abbia conoscenze tecniche sufficienti per insegnare ad un gruppo, più o meno omogeneo, e spiegare gli elementi e le difficoltà che costituiscono i saperi delle discipline curricolari, ovvero dell’insieme delle materie che si devono maneggiare al termine del percorso. In questo modello, che si è affermato lentamente ma implacabilmente in tutto il mondo, non si pone alcuna attenzione all’educazione umana e morale, e benché ovunque si insegni educazione civica e in alcuni casi anche filosofia o morale, non ci si pone mai obiettivi in merito alla formazione dell’individuo inteso come un tipo ideale di essere umano, con determinate caratteristiche e virtù. Piuttosto si premiano i risultati, le conoscenze, le capacità comunicative, la competenza nei linguaggi formali e nella logica. Questo modello è anche fortemente selettivo (come denunciava decenni fa Don Milani, ma oggi la selezione c’è ancora, meno appariscente ma parimenti efficace), fortemente spersonalizzante (tutti devono imparare la stessa cosa allo stesso modo e negli stessi tempi), fortemente passivizzante (la metafora che vi sottende è quella del trasferimento di conoscenze da un docente che passa a uno studente che riceve). Nonostante la poca vitalità filosofica e l’assenza di scientificità, per non menzionare l’assenza dell’orizzonte valoriale come elemento fondamentale dell’educazione per la vita, questo modello è il più economico nel permettere ai governi di tenere impegnati e custoditi i bambini e i giovani tra i 6 e i 18 anni, e per questo rimarrà in piedi a lungo (con la nefanda possibilità che grazie a dei robot che surrogano i docenti esso diventi ancora più economico e quindi più appetibile per i governi). Oggi molti genitori e docenti sono ormai coscienti del fatto che questo modello sia troppo poco educativo, perché riduce l’educazione a mero effetto dell’insegnamento di una materia curricolare con mezzi passivizzanti, dimenticando che l’essere umano è molto di più di un possessore di conoscenze scolastiche (che nel linguaggio comune significa conoscenze di basso livello e inutili per la vita), tuttavia un vero abbandono di questo modello non potrà avvenire finché la società avrà bisogno di recludere i bambini e i giovani in uno spazio non sociale e per lo più meramente concentrazionario. Questo modello è stato fondamentale per diffondere l’alfabetismo, le conoscenze e la cultura scientifica a partire dall’età moderna, ma oggi sembra messo in discussione dall’affermarsi di nuovi mezzi di comunicazione di massa che divengono portatili. Come all’inizio dell’età moderna il libro abbandonava i monasteri per finire nelle tasche e nelle borse di ogni persona che imparasse a leggere, così oggi l’accesso a immensi archivi di immagini, video, audio e testi abbandona le biblioteche, le radio, le televisioni per finire nelle mani e nelle tasche di chiunque sotto forma di apparecchio elettronico. Questa rivoluzione, al pari di quella avviata dalla stampa a caratteri mobili di Gutenberg, avrà ripercussioni sull’accoglienza che la società rivolge all’infanzia e tenderà nel lungo termine a far scomparire la netta divisione culturale tra adulto e bambino, rimettendo in discussione l’organizzazione del modello scolastico, ma non in un senso che possa produrre un modello migliore e più umano, avremo invece scuole più disumanizzanti e apprendimenti più instabili, meno duraturi e meno specializzati in una società più sperequata. Una società che vuole includere i bambini e i giovani nelle relazioni sociali attraverso mezzi di comunicazione che non richiedono alcuna formazione del carattere o della mente, perché vi si accede a partire dai primi mesi di vita e vi si naviga senza una meta e senza alcuna struttura, è un rischio per l’idea stessa di bambino e per la possibilità di educare in maniera cosciente e deliberata. Un’opzione a questa destrutturazione del modello scolastico, che rischia di vedersi ridefinito e riprogrammato sostituendo i libri con i tablet e i maestri con i tutorial, non sembra ancora nata, per il momento prevale ciò che Maria Montessori chiamava accoglienza ironica, ovvero una accoglienza da parte degli adulti che a parole vuole promuovere e favorire l’educazione dei bambini ma nei fatti li esclude e li segrega in ambienti in cui non c’è nulla di umanizzante.
Un ultimo modello è quello dell’apprendistato, del giovane che deve apprendere un mestiere e diventare esperto di un arte, esperto al punto da diventare maestro in grado di compiere capolavori, lavori a regola d’arte che richiedono una perizia sopraffina. Proprio il termine perizia ci indica bene come questa formazione sia essenzialmente pratica e centrata sul saper fare. Il bambino e il ragazzo in questo modello sono considerati inesperti di un’arte, ancora incapaci di gestire la complessità di compiti ardui che richiedono specializzazione e raffinatezza di ingegno, competenze e abilità. Solo grazie a una frequentazione continua, assidua, attenta, di persone esperte (maestri come vengono chiamati ancora gli artisti in ricordo del fatto che stavano a capo della bottega e insegnavano l’arte). Questa frequentazione prevede principalmente un’allenamento a imitare, seguire, ripetere, a cui si mescolano momenti di riflessione e studio. Dopo un periodo di tirocinio più o meno lungo (in alcuni casi può durare molti anni) l’apprendista è in grado di dimostrare che sa compiere un capolavoro, cioè un lavoro eseguito a regola d’arte in cui non si può scovare alcuna imperfezione dovuta a mancanza di abilità. Da quel momento può diventare a sua volta un insegnante. Questo modello che è arrivato fino a noi grazie alla formazione professionale tecnica (operai specializzati, agricoltori, gastronomi, medici, artigiani), una volta era riservato a tutte le tipologie più disparate di apprendente e sostituiva in parte o del tutto i percorsi scolastici e formali che oggi imperano. Se potessimo tornare al tempo di Cimabue e Giotto, vedremmo una bottega in cui dei ragazzini vanno dietro ai loro maestri preparando materiali e strumenti, pulendo oggetti, ascoltando, realizzando piccoli manufatti, mangiando, chiedendo spiegazioni. In un ambiente così lo scopo di formazione morale e lo scopo dell’istruzione disciplinare tendono a combaciare perché l’apprendente deve sia tendere ad assomigliare a una immagine esemplare (il maestro) sia imparare abilità e conoscenze.
Ma è possibile intendere l’educazione dei primi sei anni di vita secondo i modelli appena delineati?
Essenzialmente no. Perché questi modelli cercano, in misure e modalità differenti, di strutturare e definire gli apprendimenti e il carattere dei bambini, mentre nei primi anni di vita ciò non è così immediato e facile come invece in seguito. Qui non si intende affermare che il bambino piccolo non sia educative, ma che l’educazione del bambino piccolo non consiste in insegnamenti, tirocini, introiezione di precetti e modelli morali, piuttosto consiste in un continuo lavoro di cura e stimolo. Nei primi anni di vita non è possibile insegnare in maniera diretta utilizzando libri e lezioni, e generalmente i bambini non sono in grado di compiere analisi riflessive e logiche. Gli studi di psicologia dello sviluppo ci dicono chiaramente che nei primi sei anni il bambino è in una fase della vita in cui si devono maturare alcune competenze e abilità trasversali e trasferibili a diversi contesti, come nel caso del linguaggio, del movimento grosso e fino, della capacità di concentrarsi o di instaurare relazioni significative con gli altri. Questo tipo di maturazioni non possono avvenire senza un assiduo esercizio in un ambiente che favorisca esperienze educative, esperienze cioè che fanno mettere alla prova i sistemi che presiedono al coordinamento delle facoltà motorie, linguistiche, relazionali, motivazionali, permettendo di migliorarli e facendo acquisire una posizione stabile da cui ripartire nelle esperienze successive. Tutti devono arrivare al termine della seconda infanzia in grado di poter svolgere alcuni compiti funzionali basici che non possono essere appresi se non esercitando i complessi sistemi funzionali che li sovrintendono, per esempio a 6 anni si deve saper seguire lo sguardo di qualcuno che ci indica qualcosa di interessante, si deve saper parlare per esprimere un dolore o una preoccupazione, si devono saper riconoscere ambiti sociali diversi, si deve saper strisciare, rotolarsi, arrampicarsi, si devono saper riconoscere i colori, si deve saper contare e capire cos’è una quantità. E queste cose non si possono insegnare. Ovvero non si possono insegnare se non mettendo i bambini in condizione di esercitare delle facoltà psico-fisiche che in maniera spontanea li portano a dominare alcune abilità specifiche. Questo insegnamento, se così si può chiamare, non avviene in maniera diretta, analitica e astratta (ad esempio chiedendo ai bambini di contare quanto fa 10 meno 2) ma piuttosto in maniera indiretta, globale e sensoriale (ad esempio facendo vedere e toccare ai bambini un barattolo con dentro 10 bottoni e chiedendogli di toglierne 2 e poi contare quelli che rimangono). L’educazione in questo caso non è una semplice esposizione a dei concetti, ma piuttosto la creazione di un ambiente che permetta all’adulto di presentare alcuni semplici passaggi o oggetti interessanti al bambino, che poi vi si esercita in maniera pratica per sviluppare abilità e competenze. Il gioco ha un ruolo decisivo nello sviluppo, in questa fase della vita, proprio perché permette di esercitarsi in maniera concentrata su oggetti che sono manipolabili e utilizzabili per acquisire abilità di diverso tipo (ad esempio raccogliendo bastoncini in spiaggia per costruire una diga i bambini sono impegnati a riconoscere visivamente forme, materie e dimensioni, a orientarsi, a manipolare, a coordinarsi con altri impegnati nello stesso compito, a chiedere aiuto, ecc.). Il tipo di educazione più consona alla prima e seconda infanzia sembra proprio essere di tipo indiretto (il bambino viene portato in spiaggia e invitato a costruire qualcosa ma poi si attiva da solo e si motiva direttamente), di tipo globale (il bambino discrimina e analizza ma lo fa a partire da un riferimento di senso più ampio e da un contesto generale, come la spiaggia nell’esempio di prima), di tipo sensoriale (l’interesse principale per il mondo passa dai sensi e l’interazione con esso è innanzitutto sensoriale e man mano che si cresce si passa ad una sempre maggiore capacità di astrazione). Il bambino, almeno quello descritto nel paradigma appena delineato, nei primi anni di vita pone all’adulto una richiesta fondamentale, che bene seppe riassumere la Montessori nel motto “Aiutami a fare da me”, cioè mettimi in condizione di esercitarmi e apprendere, ma fallo in maniera indiretta e sfruttando la mia sensorialità, il mio interesse per le cose. Aiutare il bambino a fare, a esplorare, a esercitarsi, dando sempre lo stimolo ambientale adatto e segnalando al bambino ogni elemento significativo del contesto che egli non padroneggi o non conosca ancora. Questo modello si basa sull’idea che l’azione diretta del bambino, guidata da stimoli ambientali efficaci e da un adulto che sa mettere in evidenza elementi importanti e strutturali dell’esperienza, è sufficiente a garantire gli apprendimenti e le maturazioni sistemiche e funzionali necessarie nei primi anni di vita. E’ il modello della progettazione ambientale, della progettazione di un ambiente in cui ci siano oggetti, attività, stimoli raggruppati in classi (di tipologia di attività, di interesse, di disciplina, ecc.) che permettono al bambino di esercitare le proprie facoltà e all’adulto di presentargli gli elementi costitutivi dei saperi e delle abilità che innescano (il numero, la quantità, la parola, la formula di cortesia, il riconoscimento della dimensione, ecc.). Questo modello è sempre e costituzionalmente attento ad adeguarsi agli interessi e alle capacità dei bambini ma anche a proporre esperienze e elementi di competenza che siano necessari alla vita e al raggiungimento di apprendimenti e competenze di base. Progettare l’ambiente significa infatti pensare gli spazi, gli oggetti, le relazioni, le attività, tenendo sempre in mente il curricolo e gli elementi culturali e cognitivi che il bambino deve padroneggiare, lasciandolo libero di esplorare, sperimentare, manipolare e giocare.